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Quando, sotto i dieci anni, arrivavo a Salerno qualche rara volta sulla solita barca da traffico, mi incantavo a guardare la lunga linea bianca dei palazzi, prospicienti al sole e al mare, con in mezzo la Prefettura, allora a due piani, dalla cui sommità arrivava il suon dell'ora, mentre la barca, ancora lontana, veniva lenta, afflosciata la vela, con lo stanco batter dei remi; e spalancavo gli occhi sulla statua bianca dei giardini, la prima che io vedessi, o sul treno che correva a mezza costa, anch'esso cosa nuova per me; soprattutto mi piaceva mirare questi monti, verdi di selve e bianchi di ville fin sotto le grigie cime; mi pareva avessero non so quale signorile nobiltà, in confronto con le squallide gobbe riarse di Tresino e Licosa. Più tardi, per oltre vent'anni, in sedi lontane, nelle isole, in Basilicata, a Lecce, a Piacenza, al Campobasso, a Pescara, per quanto mi dilettassi veder cose e costumanze nuove, Salerno mi appariva come uno di quei sogni i quali, perché troppo belli, son fatti per la rinuncia. (it) |