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Se devo esaminare, a tanti anni di distanza, quello che avvenne allora, devo giungere ad un conclusione singolare: Alberto Ascari aveva paura. Lo spaventava quel suo destino che immaginava già scritto, quel ripetere a distanza le orme del padre. Già sapeva che il rovescio delle sue doti di asso, dei suoi successi, dei suoi allori di campione del mondo era la morte. Più volte nel 1955 l'avevo sentito dire "io quest'anno muoio". C'erano troppe inquietanti analogie con il padre e la sua tragica fine: l'anno finiva con il 5 , entrambi avevano 37 anni, e quel giorno era un 26 . Alla morte era preparato e l'incidente di Montecarlo deve essergli sembrato una premonizione. Ritenne di dover sfidare il destino, di dimostrare a se stesso di essere sempre Alberto Ascari. Per un pilota come lui era impensabile salire su una macchina da corsa senza il proprio casco, i propri occhialoni, i propri guanti. Eppure, come chiamato da una forza irresistibile, si alzò e se ne andò. (it) |