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Come tutti gli artisti chiamati a operare in una società ostile, Mario Ricci si trova non a esercitare liberamente un mestiere, bensì a combattere una battaglia: obbligo nuovo che però risale all'ottocento. Ciò non accade perché la società sia corrotta: interamente corrotta era la Corte papale rinascimentale, come quasi ogni altra Corte, eppure gli artisti potevano servirle senza porsi problemi. Non accade nemmeno perché la società sia ingiusta: non si ricorda secolo, prima del settecento, in cui gli artisti, a differenza dei pensatori, fossero come adesso portati a legiferare o a porsi quesiti morali. Nel farlo, alla qualifica di artisti hanno ovviamente voluto aggiungere quella di pensatori; e poiché sempre c'è qualcosa da riformare, son diventati riformatori. Questo accade, ripeto, perché la società è ostile: non pare che l'artista sia mosso in origine, nel primo scatto che l'accosta all'arte, da un desiderio di dar battaglia, ma piuttosto dal desiderio di esercitare un'arte. Accolto da una società ostile, scopre che l'arte non si può esercitare senza combattere. Ecco un fenomeno, nella storia del mondo come la conosciamo, nuovo. La gente di teatro si è accorta per ultima di questa ostilità sociale che già colpiva i poeti e pittori romantici. Appunto perché indugiò tanto a prendere le armi, quando le prese, la ribellione si propagò velocemente. Venti anni fa, quando tutti i campi dell'arte erano stati già sovvertiti, sbrandellati e ricomposti, un teatro come quello di Ricci era ancora impensabile. Oggi, che si è visto di tutto, è ancora appena tollerato. La sua felicità verrà dal pubblico, non dalla critica: da parecchio tempo si osserva che i critici sbagliano quasi sempre e il pubblico molto meno. Ma in Italia ci sono molti critici e poco pubblico: abbia coraggio Mario Ricci. (it) |