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Non c’è dubbio che la repressione e l’intolleranza sono atteggiamenti che mi hanno sempre provocato orrore e ripugnanza, fin da quando ero bambina. Forse la scoperta della repressione la feci sul mio dolcissimo Prinz, un grosso Collie paziente e docile fino all’insipienza, che mi teneva compagnia mentre giocavo nella grande casa silenziosa della nonna, nella penombra fresca dei pomeriggi d’estate odorosi di gerani e caprifogli, che mi divertivo a innaffiare su un terrazzino e strapiombo sui tetti d’ardesia, nel paradiso perduto della mia infanzia genovese. Prinz parlava solo l’inglese e fu per farmi capire da lui che mi feci insegnare dal nonno le prime parole. Ma la prima parola che mi insegnarono a dire fu: don’t. Era la parola che questo povero Prinz, per paziente e docile che fosse, si sentiva ripetere dal mattino alla sera: doveva sedersi se stava in piedi, doveva alzarsi se stava seduto, doveva svegliarsi se dormiva, doveva addormentarsi se era sveglio, voglio dire, qualunque cosa stesse facendo gli dicevano don’t e gliene facevano fare un’altra. E’ che io sono sempre stata anche più insipiente di lui: ho capito per tempo che i don’t che mi venivano somministrati anche più frequenti che a lui senza che riuscissi più di quanto abbia fatto lui a sottrarmici. Caro Prinz. (it) |