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Non ti vergogni, tu che sei romano, a stare per la Juventus? mi diceva sempre una zia di Milano che non stava per nessuno. No, non mi vergogno. Prediligo gli umili e i modesti, coltivo le mie sofferenze e mi struggo per quelle degli altri, amo gli sconfitti. Ma il caso ha voluto che, poco più che neonato, io sia stato tradotto per la prima volta a una partita di calcio, in capo a un interminabile periplo sulla Circolare Rossa, sui tavolacci del vecchissimo Testaccio. Il pubblico urlava all'arbitro e al nemico elaborati improperi che oggi mi sembrerebbero madrigali, ma allora, neonato, mi parvero improperi. Il nemico era una squadra mesta ed elegante, con l'ala destra calva, il centrosostegno arrembato e claudicante, una mezzala fragile e pallida come un re sotto il patibolo, grassoccio il portiere. Vestiva braconi bianchi, calzettoni neri con due rigoline bianche, maglia bianca a strisce nere. Si chiamava in latino. Giocava maluccio. Il pubblico infieriva. Imperversavano "i nostri" rosso-vino e giallo-mandarino. La squadra a strisce perse per tre a zero. Fingo il lirismo dell'amnesia. In realtà, senza aver mai prodotto il minimo sforzo per ricordarmele, ricordo con precisione inappellabile le formazioni delle due squadre, chi portava le cavigliere sopra i calzettoni e chi no, l'odore inebriante del fumo di migliaia di sigarette nell'umido pomeriggio d'inverno, le grida di dileggio dei miei compaesani, la mia malinconia e la mia tenerezza. Per gli sconfitti. Ho aspettato tutta un'adolescenza, una guerra, una ricostruzione, la consumazione di un primo amore e anche di un secondo, insomma quattordici anni ho aspettato perché quell'elegante endecasillabo di sconfitti a strisce mi vincesse un campionato. Da allora — ammetto — me ne ha vinti parecchi. E io continuo ad amare sconfitti che continuano a perdere. Ma nell'angolo appartato e secondario del mio cuore che concedo alla trivialità del "tifo per lo spettacolo sportivo" mi sia consentito di amare anche questi sconfitti che vincono. (it) |