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E noi, «ncielo» stavamo, chini sulla ringhiera barocca del celebre balcone su Napoli, lì sull'angolo dominato dalla cupa mole del Forte. Si guardava la città ai nostri piedi; compatta e ammonticchiata come sempre appare Napoli a chi la vede da una prospettiva aerea. Un grattacielo tagliava l'aria, dominando il mare confuso delle case, solcato dai neri decumani dei quartieri greco-romani.
Freddo e remoto il Vesuvio spento, albuginoso e come spento anch'esso, il mare; la collina di Posillipo ricoperta di eczemi. Dal caos brulicante veniva un vago rombo, un respiro di lontanissima risacca. Stavamo zitti, Doria ed io, a guardare come superstiti di una conflagrazione di mondi, reduci spaesati di evi caotici e rotolanti. Di tanto in tanto, don Gino puliva e s'aggiustava il monocolo, per vedere qualcosa nello spessore dell'aria. Qualcosa che nemmeno a me riusciva di scorgere. (it) |