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Il cuore della città batteva lì, fin dalle prime luci del giorno. Ma prima ancora, nel buio che precede l'alba, corso Vittorio Emanuele, u Càssaru, come lo chiamavano i palermitani, intrecciando l'antico nome arabo col dialetto corrente, si popolava dei rumori delle ruote dei carretti e degli zoccoli dei muli spelacchiati che li trainavano, condotti da uomini muti, avvolti da neri mantelli e con i visi nascosti dai cappelli calati sulle teste. Era l'ultimo tributo che la città con vestigia reali, da capitale, pagava alla civiltà contadina e alla campagna arida, perché cibo, frutta e altri generi di sostentamento pur sempre di lì dovevano venire. Per molti anni, buona parte dei carri che risalivano il corso si era fermata nei palazzi aristocratici, da cui sporgevano elegantemente le preziose facciate barocche, con balconi sorretti da sostegni scolpiti, morbidi come seni. Arance, mele, pere, forme rotonde di formaggi rustici passavano direttamente dai depositi delle masserie alle cantine ammuffite delle case nobiliari. (it) |