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Stava finendo il servizio militare e si presentò con la divisa da tenente in aeronautica, spavaldo e presuntuosetto, all'albergo Hassler dove vivevo i miei primi giorni di auto-esilio romano, sofisticata e femme fleur, ancora con gli abiti di New York, Parigi e Londra, ancora bella come si vedeva nelle fotografie più o meno di repertorio, ancora abituata alla gentilezza di lettori sconosciuti che per strada mi chiedevano l'autografo. Aveva vent'anni, grandi occhi pieni di stupore, un’intensa consuetudine col grande poeta-saggista Juan Rodolfo Wilcock che gli aveva insegnato l'uso di metafore e di associazioni imprevedibili. Collaborava a Ciao2001 e a II Mondo. Soprattutto aveva un fanatico amore per la psicoanalisi e un altrettanto fanatico amore per lo spettacolo. A volte diceva: Voglio diventare uno psicoanalista, a volte: Voglio fare il regista, col fervore dei poeti, degli artisti, degli ideologi; un fervore col quale avevo convissuto da quando a nove anni avevo scritto il mio primo romanzo. Voleva intervistarmi sul mio libro Beat Hippie Yippie, senza essere mai stato nessuna delle tre cose e senza sapere nulla del loro significato. Come se non bastasse, mi disse subito che quel pomeriggio si era appena ribellato a non so che pretesa di sua madre e di sua nonna: Sono stato duro con loro. Molto duro. Il suo registratore naturalmente non funzionava . Sul mio piccolino giapponese ancora insolito in Italia mi fece domande sempre meno teoriche via via che le schivavo ridendo. (it) |