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Il primo olio su tavola dipinto da Remo Wolf dopo il suo ritorno in Trentino è un San Sebastiano del 1946. È un quadro singolare, tutto da commentare. Il paesaggio dello sfondo, di prati rotti da ombre portate, di montagne, è inconfondibilmente trentino. Il cielo percorso da lacerti di nuvole vertiginose è di un blu elettrico. In primo piano c'è un masso porfirico, rosso come il mantello lacerato del protomartire legato ad un tronco morto. Ma quello che è sorprendente – per quanto ne sappiamo un caso unico nella storia della pittura – è che le dieci frecce scagliate contro il giovane Sebastiano sono tutte finite sul tronco, nessuna ha colto il bersaglio. Come interpretare questa "spiazzante" raffigurazione? Certo ci gioca la vena ironica, beffarda, che conosciamo in Wolf, una delle componenti peculiari soprattutto delle sue incisioni. Ma – a nostro avviso – c'è una ragione più precisa, più puntuale. Questo quadro, da cui parte tutta la pittura wolfiana del dopoguerra, vale a dire della sua maturità che lo porterà a fama internazionale, deve essere interpretato come un'icona "per grazia ricevuta", una sorta di ex voto: dopo dieci anni di armi, guerra e prigionia, il protagonista è giunto salvo a casa, senza nemmeno una ferita. C'è un martire in meno e un artista in più. Viene in mente il verso brechtiano: "Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi.... (it) |