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Egli è ebreo, e ama la sua razza. L'ama perché ha vissuta la parte migliore della sua vita nei limiti angusti e profondi del culto dei padri; perché ne conosce tutta la storia, da Mosè al Congresso sionistico di Basilea, per tutti i paesi, ove fu un Ghetto: da Smirne ad Amsterdam, da Roma al Cairo, da Gerusalemme a Londra e Nuova York...; perché infine il suo spirito artistico trova soddisfazione soltanto nel descrivere il mondo ebraico, nel rivivere la sua storia, nel ritrarre gli stati d'animo per cui passarono gli ebrei nei momenti più diversi della loro civiltà. La sua tavolozza ha infatti colori orientali: il grigio, l'oro, il violaceo, l'indaco..., e le sue linee, sfumate, e le proporzioni, bizzarre. La sua musica è lenta, solenne, malinconica, quasi disperata, come una nenia ebraica. Ma, vinta la prima ripugnanza e incertezza, appare una pallida e soave luce, tremolante all'orizzonte tenebroso, e s'ode una dolce melodia incrinare il rombo dominante.. È la luce della speranza; la melodia dell'amore... Qui è forse l'originalità di Israele Zangwill. (it) |