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Agli stranieri, e spesso a noi stessi, la Cambogia appariva abbastanza pacifica. I contadini legati ai loro cicli di piantagione. I pescatori che vivevano nelle loro barche, e i loro bambini nudi ed abbronzati che saltavano dentro e fuori dall'acqua. I monaci nei loro vesti, che incedevano a piedi nudi con lentezza calcolata nei loro giri quotidiani. Templi buddisti in ogni villaggio, i tetti graziosi sovrapposti che si innalzavano al di sopra degli alberi. I viali larghi e gli alberi in fiore della nostra capitale nazionale, Phnom Penh. Tutta quella bellezza e serenità era visibile all'occhio. Ma dentro, nascosto alla vista per tutto il tempo, era il kum. Kum è una parola cambogiana per una concezione della vendetta distintamente cambogiana più dannosa dell'offesa originaria. Se ti colpisco col pugno e tu aspetti cinque anni per poi spararmi alle spalle in una notte buia, quello è il kum. O se un ufficiale del governo ruba i polli d'un contadino e il contadino usa questo come giustificazione per attaccare una caserma del governo, come quella nel mio villaggio, quello è il kum. I cambogiani sanno tutto sul kum. È l'infezione che attecchisce nella nostra anima nazionale. (it) |