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Siamo un popolo insaziabilmente avido di storia, di conoscenza in movimento. In cuor suo, l'ebreo non può accettare la fine della storia, l'esclusione dell'ignoto, l'eterna immobilità e noia della salvezza che accompagnerebbero l'era messianica. Nel negare lo statuto messianico di Gesù, nel sovvertire la fede dei primi cristiani nell'imminenza del momento escatologico, l'ebreo esprimeva il genio di irrequietezza così centrale nella sua psiche. Noi eravamo e rimaniamo nomadi attraverso il tempo. Non saremo mai in grado di «pensare la Shoah» – ne sono convinto – sia pure in modo inadeguato, se ne separiamo la genesi e l'enormità radicale dalle origini teologiche. In particolare, non capiremo mai la psicosi persistente del cristianesimo, che è quella dell'odio per gli ebrei , a meno di riuscire a discernere in quella patologia dinamica le ferite mai chiuse lasciate dal «no» degli ebrei al Messia crocifisso. È a queste cicatrici non rimarginate o stimmate che possiamo applicare, secondo un significato tremendo, l'imposizione di Kierkegaard di lasciare aperte le «ferite della possibilità. (it) |