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Nella sua opera magistrale da noi più volte citata «Riforme e Rivoluzione sociale», Arturo Labriola ha dato forma di teoria alla sua avversione contro «la borghesia del Partito». Egli afferma esistere un «pericolo teorico» che il Partito socialista venga in mano di borghesi, e che tutto il movimento operaio sia volto a benefizio di interessi diametralmente opposti ai suoi. Nella pagina seguente questo pericolo teorico è divenuto «pratico». Il Labriola si domanda: «Al di fuori della lealtà personale di questi uomini, quale garanzia abbiamo che un tal pericolo sia affatto chimerico?» E altrove finalmente afferma che il Partito socialista, per dovere di conservazione, non deve accettare nelle sue file né borghesi né piccoli borghesi, né piccoli impiegati né piccoli proprietari rurali.
I di questa teoria che nella sua forma unilaterale e rigida originale equivarrebbe in pratica al suicidio politico, sono i seguenti: Poiché lo scopo della Rivoluzione sociale è principalmente economico, strumento di essa non può essere che la classe dei lavoratori salariati. Ma tutta la gente di cui sopra non ha nella lotta di classe tra capitale e lavoro alcun interesse economico. Inoltre, gli intellettuali vivono vendendo il loro lavoro intellettuale, e chi lo compra è la borghesia; dunque nella lotta di classe del Socialismo essi non hanno a che vedere; entrando nel Socialismo, essi non fanno altro che accollare alla classe lavoratrice i loro interessi borghesi, ribattezzandoli di propria autorità come rivendicazioni «socialiste».
Tutti questi argomenti non possono dirigersi contro gli ex-borghesi appartenenti al Partito; al più si possono rivolgere contro la teoria riformista della collaborazione di classe. Infatti, non soltanto l'intellettuale, ma anche il proletario vende la sua merce, ossia la sua forza di lavoro, alla borghesia. (it) |