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Non so che cosa dolcemente strolegavi | alla finestra, quando nel fetido | del Retrone cantavano le rane, – | ma ne ascoltavi le chitarre tetre, | pizzicate fra le canne e il fango, | gli strappi iterati e rabbiosi delle corde | staccati di pause improvvise, placidamente. || Pareva a me, come nel Lete paonazzo | un rantolare di femmine angosciate, – | anche uno strombettare intermittente di clacson – ai semafori chiusi. || Che idee! Era quella per te una voce | benigna, che suscita fantasie | di ràccole girate il giovedì santo, | di tamburini di latta percossi dai putini | in marcia verso uno scontro in girotondo; | e cresceva la luna, e nella luce verde i timbri | calavano di lunghezza | e affondavano nel fango avvinato delle canne, | diventavano un gorgoglio. || Le rane palustri | gracidavano le notti di siccità, | mandavano gorgogli sibilanti o fessi, | suoni di piatti di ferro sbattuti, | scrosci di catarri secolari | nell'ombra torva della notte. | A volte si udivano gorgheggi di vecchi soprani, | di bassi sfiniti, | tube che stonavano in una | rappresentazione d'opera sbagliata. | Con l'alba che cresceva i rantoli parevano | quietarsi come voci | estenuate da un lungo patire. (it) |