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Due mesi prima, in un buon giorno di sole, il povero vecchio uscì da quella camera per rivedere, ancora, una volta, il suo studiolo, ove, finalmente, era a porre in assetto i suoi libri e ad ordinare le sue carte. Ve lo ritrovai, quel giorno, sprofondato in una poltrona, presso all'aperta finestra. Un mormorio confuso saliva, da lontano, alla pace de' balconi fioriti, alla gran pace silenziosa del Palazzo Cellammare: egli ascoltava – con la bocca schiusa, col corpo lievemente proteso, con le mani spiegate su' bracciali della poltrona – la voce della città, quella voce alla quale s'eran dianzi mescolati i suoi caratteristici urli di meraviglia, le sue schiette e risate, i suoi scoppii che mettevano in curiosità e in subitaneo stupore i marciapiedi di Chiaia e di Toledo.
Ascoltava, ascoltava, estatico: s'abbeverava avidamente di quel soffio di vita e un tremor nervoso lo pervadeva tutto. Solo: or egli era solo, là dentro, egli che era stato tanto con ogni cosa viva e con tutti. E, pian piano, il suo povero corpo s'abbandonò, le mani scivolarono su pe' bracciuoli, la testa reclinò, triste, sul petto.
– Duca?
– Oh... figlio... buon giorno...
– Come state?
Egli sorrise. E disse, piano, nel silenzio, mentre pur i esterni parevano sopiti, disse napoletanamente:
– Nun vide? Sto murenno... (it) |