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Teologi e poeti devono ritornare ad essere «antenne tese sul mondo giorno e notte». Soprattutto nelle notti piovose, come quelle dal cui fondo emerge Qohelet, l'impressionante sapiente biblico, «sacerdote del Nulla», il «cui tenebroso canto» ha la «nera bellezza» dei canti sereni e disperati perché, secondo il verso di De Musset, sono «i canti più disperati a essere i più belli». Attraverso la «rasura delle parole» ormai logore e inutili, simili a spade spuntate, Qohelet scopre che «è legge che Ragione deve contraddirsi». Disperazione e contraddizione diventano categorie del pensiero; esse consumano tutta la logica della ragione ma da questo olocausto emerge il bagliore della verità. Il campo dei dubbi non è sgominato dagli argomenti, «non sai se il nulla sia» e neppure sai quanto possa salvare quel «piccolo Dio» che Qohelet chiama sempre col generico ha-’Elohîm, «la divinità», mai col tetragramma di fuoco Jhwh dell'Esodo liberatore. Eppure questo vuoto non è solo negazione, ha celata in sé una sua fecondità. Disperandosi nella sua impotenza, la Ragione rimanda ad altro È così che anche in Qohelet sembra prender corpo la legge paradossale del seme che, morendo, genera. (it) |