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Mio zio aveva una mirabile serenità d'animo, anche in mezzo alle lotte che non gli furono risparmiate. Realizzava l'ideale di vivere per sé, senza egoismo. Non l'ho mai visto adirarsi e spesso calmava qualche escandescenza di mio padre. Amava la conversazione nella quale portava una temperanza di parole che si scambiava facilmente per indifferenza ma che non lo era. I suoi giudizi erano sempre benevoli, la sua indulgenza si stendeva a tutto: la parola più grave che diceva contro qualcuno era: imperfetto. Aveva in ogni cosa uno squisito e aristocratico senso della misura.
Nell'80 fu nominato arcivescovo di Capua e dové lasciar Roma per chiudersi in quella città morta, nell'antico, immenso palazzo arcivescovile, le cui terrazze, dall'ammattonato verde di muschio, davano sul Volturno. Nelle linee grandiose di quel paesaggio, velato dalle nebbie umide del fiume, ritrovò la solitudine della sua cella di filippino e la sua vita parve diventare ancora più spirituale. Semplicissimo nelle abitudini, frugalissimo, alla mano, non aveva ambizioni e chiedeva soltanto d'essere lasciato in pace. Ma la sua pace non era una morta gora. La sua vita interiore era doviziosa e tale si mantenne fino all'ultimo respiro. Già vecchissimo, amava ancora di apprendere cose nuove e s'interessava a qualunque soggetto di letteratura o d'arte. Se qualche tempesta si agitò nel fondo del suo spirito, nulla però venne a turbare mai la calma superficie della sua esistenza. Nemico acerrimo degli scrupoli, si sforzava di struggerne il germe nell'animo dei suoi penitenti e di tutti coloro che lo avvicinavano. Se avesse dovuto prendere una divisa credo che avrebbe preso: Ne quid nimis. (it) |