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Chissà quale raziocinio o istinto, dottrina o presagio spinge un pittore a ritagliarsi questa o quella porzione nella totalità del visibile, per farne il proprio idolo iconico e quasi l'interprete privilegiato nel suo rapporto con l'infelicità della storia. Gli è sufficiente, talvolta, un elemento anche minimo – un manichino, una bottiglia, un muro – ed ecco, in virtù d'un miracolo che non finisce di meravigliarci, vivere in quella presenza, e splendere, il corpo intero dell'universo. Così per Piero Guccione l'albero: la vita, la morte e la passione dell'albero, sotto la specie doppia e contemporanea di creatura vegetale, inscritta all'anagrafe della nomenclatura botanica, e di carrubo-Cristo, emblema e testimonio incarnato del mondo offeso. In Guccione, la pena è moltiplicata: a dargli patimento non è il semplice spettacolo di un'aiola en souffrance, ma quello, più crudo, della terra in pericolo, spogliata, saharizzata, ridotta da verde selva a deserto di dune gialle. (it) |