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una storia filosofica, come quella del Gibbon, si può scrivere vicino o lontano dal proprio oggetto di studio. Non così quella del Gregorovius. Per sentire e dipingere a quel modo, per rianimare con vera fantasia di storico artista quei ruderi, quelle torri, quelle nere moli medievali, appoggiate, intrecciate quasi alle classiche ruine di Roma antica e imperiale, bisogna averle sott'occhio, viverci in mezzo, vederle, rivederle a quei lumi di sole invernale, fra quelle brume estive di tramonto, quando, dice il Gregorovius, «Roma, qualche volta non si lascia vedere, si racchiude in sé stessa, nella sua vetustà». Per questo egli aggiunge che l'aria di Roma agisce su di lui come vino di Sciampagna, che la sua storia del medio evo romano non è soltanto il frutto di vent'anni di ricerche, ma il d'una vita, la conseguenza d'una passione invincibile. Felice libro, felicissimo scrittore! (it) |