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Paolo Vallorz uscì dal suo atelier veloce come una saetta. Indossava un maglione nero a collo alto. La sua semplicità nel vestire doveva piacere a Jacques. I suoi piccoli denti brillavano affabili quando mi salutò. Il suo viso mi sembrò più infantile, i suoi occhi più ridenti. Entrai. Non era una serra. Una soffitta scesa al pianterreno. No. Un atelier. In fondo alla stanza, il cavalletto, immerso nell'umile luce d'un inizio d'inverno, aspettava pronto per l'uso. Vecchi elenchi del telefono erano stati lasciati in disordine sui tavolini, tra coperchi di scatole, riviste e ogni tipo di cianfrusaglia. Il cavalletto colpì la mia attenzione quanto l'avrebbe fatto un pianoforte a coda prima dell'arrivo del pianista. Un vecchio cane sognava e mugolava su un canapé sfondato accanto alla stufa. Le delizie di Capua. La bohème, la famosa vita di bohème, m'arrivava in faccia come una manciata di castagne calde. Fu un nudo mistico. Spento dall'età. Singolare grazie al talento del pittore. Piacque a Jacques. L'espose in un angolo discreto della sua biblioteca di Flurares. Non ero imbarazzata quando lo guardavamo. Avevo davanti, su una tela, un'anacoreta dalle braccia penzolanti. (it) |