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In quell'altro mondo che ho abbandonato, v'erano troppe parole. Ero disperato nell'assistere a simile sperpero, perché mi ricordavo il linguaggio avaro di cui si servivano le mie antiche famiglie. Vi riflettevano cento e una volta prima di pronunciare le parole che sono grandi. Così, per esempio, i miei genitori mai mi hanno detto di amarmi, e se mio padre avesse avuto l'impudenza di dirmi «ti amo», credo che mi sarei sciolto dalla vergogna – per lui e per me – e sarei scappato. Sta male. Mi ha detto, ti amo. Quest'amore, se ha sentito il bisogno di confessarlo vuol dire che per lui non è più naturale. E che forse una bestia confessa di amare i suoi piccoli? Li lecca e li riscalda. O ho, non si dice agli esseri che si amano. Lo si pensa, furtivamente, a labbra serrate, infatti, per le anime gravi nell'ammissione di amare, v'è qualche cosa di un poco impudico. Credo sia molto difficile pronunciare certe parole. Credo che uno sguardo basi; o la mano che si posa sulla spalla. O il silenzio di due soldati che marciano al medesimo passo. O una pacca. Quando ero ragazzino, mio pare veniva a svegliarmi. Mi scuoteva. Diceva «avanti, vaillant» «bisogna alzarsi» poi usciva dalla camera dove galleggiava l'odore sacro della sigaretta. Se mi avesse detto: «Avanti, amore…». No, impossibile. È ridicolo. Non si parla così mollemente a un uomo. Per lui ero «vaillant»: a scuola, in bicicletta, quando mi sforzavo di seguirlo, ovunque. Lode più grande non ne conosceva. Vaillant. Come a una bestia. (it) |