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A Leningrado alla fine di giugno splendevano ancora le chiare notti estive. Ricordo che dal Golfo di Finlandia veniva un vento teso e tanto rabbioso da poter immaginare che fosse lui ad impedire il sopraggiungere del buio notturno. Quasi una stessa luce accompagnava tutto il giro delle ventiquattro ore: soltanto verso le dieci di sera leggermente si attenuava, rimanendo immobile sino alle sei del mattino. Era una luce fredda, lontana, quasi innaturale; pareva quella d'un crepuscolo che si era dimenticato di cedere il passo alla notte o di un'alba che non permetteva al giorno di fiorire pienamente.
Per quasi due mesi ogni anno, di giorno e di notte, una luce monotona batte sulle pietre e sulle acque di Leningrado; ed a me, in un momento di bizzarria, parve che fosse come quell'altra monotona e simbolica luce che sempre batte sui luoghi famosi di questa città. È un'unica luce, che deve per forza chiamarsi politica. Essa illumina allo stesso modo memorie antiche e recenti, le glorie dello zarismo e quelle della rivoluzione. In nessuna altra città sovietica si vedono tanti ricordi dell'epoca tramontata e tanti ricordi di come ebbe inizio l'epoca attuale così strettamente legati gli uni agli altri; così, direi, offerti su uno stesso piatto, sotto la medesima luce. (it) |