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Come ogni roussoviano panteista, Tolstoj mirava «alla fusione del suo essere con l'Essere supremo»: alla illimitata espansione dell'anima e alla sua identificazione con Dio. Ma, nei diari giovanili, sorprendiamo anche accenti diversi. Talvolta Dio lo assaliva con una durezza estrema, con dei colpi così violenti nel cuore, che aveva voglia di piangere; e gli sembrava che fosse l'Estraneo, il Remoto, l'Inconcepibile, colui che non appartiene al regno dei nomi.
Oltre a questa ebbrezza, il giovane Tolstoj conobbe l'altra, forse più spaventosa ebbrezza che fa nascere in noi la vertigine del pensiero. Amava pensare pensieri sempre più astratti: giungere al punto in cui aveva il sentore dell'«inabbracciabile immensità» del mondo delle idee: in quel momento, si rendeva conto dell'impossibilità di andare oltre – e tuttavia gettava sempre nuove idee sulla tavola d'azzardo della mente, fino a quando non riusciva più ad esprimersi. Spesso era assalito dal dubbio universale: o immaginava che, all'infuori di lui, nessuno e nulla esistesse in tutto il mondo, e che gli oggetti non fossero oggetti, ma immagini che apparivano soltanto quando rivolgeva ad esse l'attenzione, e che, appena avesse cessato di pensarle, immediatamente sarebbero dileguate. (it) |