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All'inizio del Protagora, allora nel nostro programma di studi, Platone descrive l'andirivieni dei giovani che ascoltavano Socrate, in quella particolare ora del giorno che i Greci chiamavano «il mattino profondo». Non ho mai dimenticato questo motto, questa definizione, queste parole, né la squisita descrizione delle movenze d'una gioventù libera, paga di sé. Non avevamo certo dei Socrate tra noi, né era giusto dire che possedevamo il sole, no, era il profondo mattino, l'eterno, profondo mattino di giovinezza quel che splendeva in cuore. Non eravamo vestiti come i giovinetti seguaci di Platone; alcuni di noi indossavano dei camiciotti, dei lunghi grembiuli bianchi, altri grigi, altri ancora neri. Non dimenticherò mai che avevo un piccolo abito di lana nero, in cui avevo fatto ricamare in blu la civetta d'Ateneche era il simbolo della nostra classe. Eppure il nostro vestito era un altro: indossavamo il profondo mattino. (it) |