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La giornata era scandita dall'essere lavoratori schiavi, che però era una fortuna rispetto a quelle che facevano parte dei commandi – così venivano chiamati. Credo che una delle ragioni per cui de l'ho fatta, è stata di lavorare al coperto dentro la fabbrica. Quelli obbligati ad altri lavori, a scaricare le pietre da un camion – inutilmente, perché dall'altra parte un altro gruppo le ricaricava –, scavare delle buche che gli altri riempivano, quei lavori che servivano per uccidere senza sprecare né le munizioni né lo Zyklon B. Dopo queste ore di lavoro veramente da schiavi, si tornava a piedi –sempre- al campo. Si affondava nel fango, nella neve, eravamo fradicie d'acqua. Si tornava al campo, e quel momento, invece di essere di relax che uno si riposa dopo quella giornata, c'era questa visione del crematorio: a seconda del fumo o della fiamma, capivamo se stava lavorando o se aveva già lavorato. Andavamo nelle baracche e lì ci davano questo pezzo di pane della sera, che era sognato per tutto il giorno. Poi c'era la notte. E la notte del lager è una cosa di cui non si parla mai. E la notte del lager è invece importantissima, perché si sentono le grida di quelli che vanno al gas, si sentono i richiami delle mamme che non perdono i bambini, i bambini in tutte le lingue d'europa, dei mariti che han perso le mogli. E noi sapevamo dove andavano: era la notte. (it) |