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In questo discorrere, il lento e grigio giorno di Tokio declinava; fedelmente accompagnato dalla pioggia sottile. Ero un poco scontento. Perché a me, allora, Shimoi interessava assai più come «giapponese» che come «napoletano» mentre a lui, quel fatto di possedere ogni segreto dell'anima e della misteriosa essenza d'arte del suo paese, non diceva quasi niente. Un fatto spiegabilissimo, del resto, che dice quanto Napoli avesse mutato o, come gli dissi scherzosamente, «corrotto» un nipponico così puro.
Allora Shimoi mi raccontò quest'aneddoto. Nel 1949 ricevette un invito a recarsi al palazzo imperiale. Mc Arthur aveva stabilito che l'Imperatore diventasse un monarca borghese e Hirohito, prima di obbedire al generale americano ordinò di celebrare, per l'ultima volta, la «cerimonia del tè», convocando tutti i familiari, cioè tutti i principi del Giappone. A Shimoi fece dire dal suo maestro di cerimonie: «Venga ad allietarci con le sue storie di Napoli, in quest'ora triste». Nessun napoletano avrebbe immaginato il nome della sua città capace di consolare, anche per poco, la tragedia di un imperatore vinto. (it) |