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Ma i colpevoli, negli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi, non sono i poliziotti che lo hanno pestato. E non sono neanche i medici che lo hanno lasciato morire di inedia, "perché il ragazzo rifiuta le cure". Il decesso in carcere di Cucchi, nelle prime ore del 22 ottobre 2009, è il numero 148. Al 31 dicembre dello stesso anno, quindi dopo poco più di due mesi, quella cifra è già salita a 176. Non vi sembra una cifra - e una crescita - spaventosamente enorme? Quella cifra è figlia anche dei veri colpevoli: noi. Tutti noi. Nei suoi ultimi sette giorni, Stefano viene a contatto con 140 persone. Centoquaranta. Carabinieri, giudici, agenti di polizia penitenziaria, medici, infermieri, prigionieri. Pochi o forse nessuno capiscono che quel ragazzo, di per sé destino a scomparsa con un suo codice per il quale anche esser pestato rientrava in una sorta di logica tra "buoni" e "cattivi", stia morendo. O forse lo capiscono, ma se ne fregano. Nessuno fa nulla per aiutarlo sul serio. Chi fa finta di niente, chi si volta dall'altra parte. Nonostante gli occhi pesti, i lividi, i dolori e le ecchimosi. O forse proprio per quelli. Stefano Cucchi è morto per le botte e per la dimenticanza. Era un essere umano "prescindibile" per il sistema. Sacrificabile e dunque facilmente dimenticabile. Se non è stato poi dimenticato, è solo per la battaglia di una famiglia eroica . (it) |