so:text
|
Avevo quattro anni, forse cinque, quando ho incontrato per la prima volta Vittorio Nisticò. Entrai nel suo ufficio, al primo piano del palazzo di piazza Napoli, a Palermo, che ospitava «L'Ora», insieme con mio padre Nino Sorgi, grande amico di Vittorio e legale del giornale. Il ruolo dell'avvocato, in un piccolo giornale di battaglia come «L'Ora», era decisivo; il suo consiglio, indispensabile, a volte, per la pubblicazione dei testi più rischiosi. Così, invece di aspettare al suo studio l'autista trafelato, che all'ultimo momento gli portava le bozze ancora umide da rileggere, mio padre aveva preso l'abitudine di passare al giornale, verso l'una, prima di tornare a casa per colazione. Ricordo ancora bene l'atmosfera di concitazione e confusione, tipica dell'ora di chiusura dei giornali, che vissi con sorpresa, senza sapere che mi avrebbe accompagnato per il resto della vita: il ticchettio crescente delle macchine da scrivere , le corse dei fattorini, gli urli da una stanza all'altra, le montagne di carta sparsa sul pavimento, i titoli abbozzati con matite rosse e blu su tipici fogli da «brutta. (it) |