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Il vecchio libro di Quinet sulle Révolutions d'Italie attesta i limiti dell'ingegno di uno scrittore che storico certo non può esser detto, e – come ha mostrato Neri – le origini di alcuni pregiudizi della nostra critica romantica. Quinet aveva in comune col suo amico Michelet la manìa della superiorità del protestantesimo sul cattolicesimo, buffissima pretesa e gara tra due forme della stessa superstizione. L'odio di religione lo rende perspicace: pochi hanno sferzato come lui il vizio indigeno della retorica che copre, nasconde, ammanta il vuoto, l'ignavia, le colpe, l'atrocità. Nessun ossequio per la legge, sempre apertamente violata o faziosamente applicata, nessun rispetto alla libertà o dignità individuale. La setta vittoriosa stermina e soffoca la soccombente; gli interessi della prima e i suoi uomini, regnano sovrani. Al di fuori, la pompa tende a creare una rappresentazione scenografica-letteraria, che nulla ha a che fare con la triste realtà. L'equilibrio dei poteri, il governo costituzionale, l'alternarsi dei partiti – osserva Quinet – sono stati in ogni età, in Italia, una chimera. (it) |