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Le dolomiti dei grattacieli tacciono la loro imponente altezza. I veli bigi e violenti di alta fuliggine sfumano gradualmente i piani e le rupi squadrate che salgono. Lassù guizzano gli aculei d'argento e irradiano le cupole dorate mentre garriscono le bandiere punteggiate di stelle e strapiombano gli spigoli dei verticali macigni abitati, degli alveari a picco. I sentieri per salire le babeliche montagne sono ardui e spinosi. I viottoli che portano agli uffici sono scoscesi: visi duri, porte ermetiche, abitanti inospitali, risposte pungenti, conversazioni amare e fatiche inconcludenti. Il paesaggio interno è monotono: cartame a mucchi, ticchettio permanente della gragnuola dattilografica. Fruscìo e sventate degli ascensori che aspirano e immergono come potenti stantuffi la nera marea umana. È una marea di milioni di insetti che brulicano, mordono, penetrano, vanno e vengono a processioni, si arrampicano, sostano e indietreggiano. Fuggono di casa in casa, cadono e si rialzano, combattono, assalgono affamati ed assetati di luce, di pane e di un pezzo d'oro che splende lassù fra le vette dell'ingannevole paradiso terrestre. L'ascesa dà la vertigine. Una misteriosa febbre spinge l'uomo-animale alla conquista di quelle fragili guglie. Sale sfiorando gli abissi, cammina per svolte a precipizio, prosegue fra lo sgretolarsi delle valanghe e il boato dei crolli. Il povero e misero mulo, quasi accecato, passa attraverso le cortine di fumo, zoppica, fra il ringhiare delle macchine, fra le tempeste e gli uragani delle genti. E sale ancora duramente per una manciata di confortevole altitudine, per un fascio di autentico sole, per un lembo di cielo, per un guscio di pace e un meritato pugno di stelle. (it) |